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Arti Marziali. Perché?

Perché praticare un’arte marziale? Ce lo siamo mai chiesti? Nel 90 per cento la prima motivazione è l’autodifesa. Ci iscriviamo in palestra per sentirci più sicuri e, visto che la vita è uno stato mentale, dopo qualche anno di pratica effettivamente lo siamo. Il che non significa necessariamente che la nostra tecnica funzioni. Gli aneddoti su marzialisti messi ko da una testata a tradimento o da un cazzottone ben dato alla prima lite stradale si contano a centinaia. Per le aggressioni sessuali alle donne, invece, il discorso cambia radicalmente: una reazione decisa e coraggiosa, qualunque sia la disciplina praticata, ha ottime possibilità di mettere in fuga un aggressore sempre, ovviamente, che non sia armato o in gruppo.

Ma difendersi è tanto importante? E nella nostra vita quotidiana corriamo veramente il rischio di essere picchiati, minacciati, assaliti a ogni piè sospinto? Nella mia variegata esperienza di marzialista, passato dallo judo (a 9 anni) al taekwondo (a 16), dal karate al wing tsun e al tai ki che pratico ancora, alla verde età di 63 anni, sono sicuro di aver preso più botte sul tatami o in palestra di quante ne avrei mai potute prendere in un improbabile scontro urbano. Parlo di denti rotti, costole incrinate, labbra sanguinanti, traumi articolari…Tutti inconvenienti che probabilmente, in una zuffa di strada, avrei potuto evitare semplicemente scappando il più velocemente possibile: la migliore e più limpida strategia di wu wey.

Le arti marziali, a mio modesto parere, sono molto, moltissimo di più che discipline di self defence.  L’esempio che mi viene in mente è quello di uno schermidore che, al giorno d’oggi, sicuramente non impugna fioretto, spada e sciabola per imparare a battersi in duello. L’autodifesa è importante e sicuramente è alla base di moltissime discipline ma è solo una componente. Focalizzarsi solo su questo aspetto è tanto riduttivo quanto guardare un film senza colonna sonora o dialoghi perché le Arti Marziali nel loro complesso (quelle vere, tradizionali, non i pur nobili sport combattimento che sono semplicemente un’altra cosa) offrono tantissimi altri vantaggi e obiettivi da raggiungere.

Il wing tsun, certamente una delle tecniche più efficaci per imparare a difendersi, non fa eccezione. Prendiamo la prima forma, Siu Nim Tao. Non si tratta di un collage di tecniche ma di un esercizio che fa lavorare le articolazioni, i muscoli, i tendini e mette in moto un flusso energetico che  non ha assolutamente nulla da invidiare alle scuole interne di kung fu cinese come Tai Ch’i, Ba Gua o H’sing I ma nemmeno, secondo me, ad alcune tecniche di meditazione “pura”. Proviamo a praticarla lentamente, concentrandoci sul respiro e sui movimenti, ascoltando le reazioni corporee alla posizione i.r.a.s., focalizzandoci sulla linea centrale e ne percepiremo gli effetti. E questo vale, ovviamente, anche per le altre due forme “in movimento” e per le tre che comprendono l’uso delle armi tradizionali. L’uomo di legno è una faccenda a se.

“Inventato” da una donna, il Wing Tsun conserva molte caratteristiche di flessibilità, sensibilità, superamento dell’Ego,  lavoro fisico a basso ma continuo regime che lo rendono quasi unico. Il problema è che molte scuole se ne dimenticano così come molte varianti del tai ch’i  ignorano quasi completamente la componente marziale che pure, anche se in modo meno evidente, è comunque presente. Secondo la filosofia cinese è impensabile curare l’esterno senza pensare all’interno e viceversa. Yin/Yang sono in continua dialettica, nessuno dei due esiste senza l’altro, nessuno prende definitivamente il sopravvento, in una continua alternanza forte/debole, oscuro/luminoso, aggressivo/resiliente.

Il tutto, ovviamente, “cum grano salis”. Non ci si iscrive a una palestra di Wing Tsun per trasformarsi in una specie di santone benedicente che svolazza a un metro da terra ne’ a una di tai ch’i per salire sul ring di Ultimate Fighting ma i due aspetti devono essere sempre connessi altrimenti la tecnica stessa è svilita, svuotata e, in fin dei conti, quasi inutile.

Imparare a picchiare o a non farsi picchiare non è difficile. Chi ha la sventura di nascere in un ambiente degradato o violento lo apprende quasi sempre fin da bambino e non ha bisogno che qualcuno gli insegni i pugni a catena e le gomitate per sapersela cavare in strada. Cambiare il proprio corpo, le proprie percezioni, il proprio modo di sentire, di muoversi, di reagire a un confronto che spesso è solo verbale è un’altra cosa: è il lavoro di una vita. Kung fu, in cinese, significa “duro lavoro” non “ti spacco la faccia”.

In genere, il percorso di un marzialista inizia con l’autodifesa e finisce in una dimensione quasi spirituale che, spesso, lo porta a cambiare disciplina più volte. A mio parere non ce n’è bisogno: basta concentrarsi sulla propria disciplina, studiarla a fondo, capirla e, perché no, cercare di mettere in pratica le cinque virtù taoiste: sincerità, umiltà, rispetto, fede e costanza.

La prossima volta che usciamo dalla palestra, dopo un allenamento, cerchiamo di fare un piccolo esercizio di introspezione. Come ci sentiamo? Rilassati, un po’ stanchi, sicuri di aver imparato o perfezionato qualcosa e, soprattutto, di aver allontanato per un’ora e mezzo i nostri mille problemi quotidiani piccoli o grandi che siano? Se è così abbiamo lavorato bene, altrimenti cerchiamo di fare di meglio la prossima volta. L’autodifesa è anche dalle invasioni esterne: il chiacchiericcio della mente, il telefonino, le mail, il lavoro, le rotture di scatole. La pratica, qualunque pratica, deve essere un’oasi per la mente. E se ci dovesse mai capitare (speriamo di no) di dover mettere in pratica quello che ci hanno insegnato in uno scontro reale scopriremo che tutto funziona. Anche l’atteggiamento mentale. Soprattutto quello.

Massimo Lugli

 (Giornalista e scrittore, inviato speciale de la Repubblica per la cronaca nera e autore di romanzi gialli. )

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