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Il relativismo del Wing Tsun

 

“Nella teoria della relatività non esiste un unico tempo assoluto,

ma ogni singolo individuo ha una propria personale misura del tempo,

che dipende da dove si trova e da come si sta muovendo.”

 – Stephen Hawking

All’inizio del ‘900 un giovane fisico si mise a riflettere sulla natura del tempo e dello spazio. Da questa sua ricerca scaturì una delle teorie fisiche più ben strutturate e con il maggior numero di conferme sperimentali della fisica moderna: la teoria della relatività.

In queste poche righe vorrei analizzare il relativismo del Wing Tsun, cioè come il comportamento di un praticante si conforma al mondo che lo circonda e come questo può modificare la realtà che gli si presenta. Chiaramente, la discussione che segue non ha la pretesa di ricalcare la teoria fisica se non come metafora.

La relatività in senso stretto stabilisce come, al variare del “punto di vista” (n.d.r. sistema di riferimento), le leggi fisiche vengono modificate(*). In questo senso quindi il relativismo permette di capire come la realtà si modifichi cambiando le condizioni di osservazione.

Il WT è un’arte marziale che basa le sue azioni su percezioni della realtà che circondano il praticante, di conseguenza anche il WT è soggetto a una sua relatività.

Impariamo tutti ad associare uno specifico movimento di risposta ad un input ben definito del nostro attaccante. Dalle prime ore di allenamento si deduce facilmente che il nostro modo di agire o reagire ad un attacco è subordinato ad una tipologia di input, mancante il quale una specifica azione non viene eseguita.

In questo senso sembrerebbe che il WT non sia soggetto a relativismo. L’input c’è o non c’è. Supponendo di avere una sensibilità infinita ed un allenamento perfetto, in linea di principio non ho modo di sbagliare azione al variare dell’input, e, se l’avversario si comporta coerentemente, non ho molta scelta, devo reagire in un modo più o meno codificato. Per quanto questo sia vero nelle prime fasi di pratica del WT, progredendo nello studio le barriere della codifica cominciano a crollare. I movimenti o gli attacchi che prima necessitavano di azioni relativamente precise cominciano ad essere possibili anche se l’avversario non ci sta dando esattamente l’input corretto, per esempio eseguendo un cambio di angolo posso trasformare un movimento in un altro o, semplicemente, aprirmi la strada per un attacco diretto.

Già a questo punto possiamo vedere uno spiraglio di relativismo: alcuni movimenti possono essere modificati dalla volontà del praticante, ma sempre nei vincoli della situazione presentata dall’attacco avversario. Questo primo step di comprensione lo potremmo paragonare a quanto realizzato da Einstein nella formulazione della relatività speciale: abbiamo scoperto delle cose, cose molto interessanti e fondamentali, ma che valgono solo in condizioni precise e definite.

Proseguendo nello studio del sistema anche queste ultime condizioni sono destinate ad essere abbandonate. Vengono introdotti i movimenti “attivi”, da distinguere da quelli studiati originariamente che sono classificati come “passivi”. Nella forma non sono diversi, un Bong-Sao rimane sempre un Bong-Sao, ma cambia l’intenzione, che da semplice movimento di assorbimento servo di un input avversario, diventa attore della scena che il praticante desidera attuare. È chiaro che alcuni vincoli situazionali rimangono, il praticante deve sempre destreggiarsi nella situazione che gli viene presentata dall’avversario ma con una fondamentale differenza: può decidere come agire. Non deve aspettare, non è costretto ad assecondare la tipologia di risposta che l’avversario gli impone, può, mediante il corretto uso del corpo e della geometria, gestire l’attacco e modificarne le caratteristiche dinamiche per eseguire un qualsiasi altro movimento, da un semplice spostamento laterale a qualsiasi altra sovrastruttura.

Un movimento attivo è caratterizzato tanto dal corretto uso del corpo e della geometria quanto della pressione, che viene gestita dallo stesso praticante in modo da indurre, a sua volontà, il movimento desiderato che altrimenti non sarebbe avvenuto.

Una metafora che può essere utile a capire la transizione tra “movimenti attivi” e “movimenti passivi” è l’aquilone: l’aquilone volerà se c’è vento che permette alle sue ali di prendere pressione e sollevarsi, l’aquilone rimane “fermo” e l’aria si muove. Tuttavia, in assenza di vento possiamo indurre questa pressione correndo e trascinando l’aquilone attraverso l’aria “ferma” permettendogli di sollevarsi. L’aquilone percepisce la stessa pressione che gli permette di volare in entrambi i casi, anche se la causa è ben diversa!

Quando viene raggiunta la maturità di pratica il movimento attivo diventa l’arma principale del praticante, tanto che se ne ha la sua massima espressione e studio nella forma dell’uomo di legno, dove l’avversario è letteralmente immobile ed è il praticante a decidere che tipo di input creare per eseguire il movimento che più gli conviene.

Questo è il vero fascino del WT, la perdita di ogni vincolo e la totale libertà, serva soltanto dell’immaginazione e della volontà del praticante.

Potremmo chiamarla “la relatività generale del WT”, in cui tutto ciò che non si riusciva a spiegare acquisisce un senso, tutto ciò che sembrava costruito e particolarmente difficile da applicare acquista una sua naturalezza e una spiegazione che altrimenti non avrebbe avuto.

Anche il WT, quindi, è soggetto alla relatività, non quella fisica, ma quella di percezione ed azione. Quella che permette al praticante di avere la massima libertà di espressione, rendendo l’arte marziale una vera arte. Idealmente, il praticante è libero di esprimere la sua forza e conoscenza della meccanica del proprio corpo in modo illimitato senza preoccuparsi della tipologia di aggressione che sta subendo, utilizzando movimenti attivi e passivi per gestire e finalizzare qualsiasi situazione si trovi ad affrontare.

(*) Nota per i più curiosi: Il principio di relatività esiste da molto tempo prima di Einstein. Galileo Galilei fu il primo a formulare il principio di relatività in meccanica classica: le leggi della fisica sono uguali tra sistemi di riferimento inerziali in moto uniforme tra loro. In altre parole, le leggi fisiche sono indistinguibili tra due sistemi di riferimento (due osservatori) che si muovono di velocità costante tra loro. Einstein invece fece un ragionamento ancora più complesso, mettendo in discussione i principi stessi della fisica, in particolare il concetto di tempo e spazio assoluti su cui la teoria classica fa fondamento. Per Newton, e anche Galileo prima di lui, il tempo era uno, unico, immutabile, uguale per tutti in qualunque punto dell’universo, così come lo spazio, e Newton nei suoi “Principia” attribuisce la natura di spazio e tempo a Dio…concludendo semplicemente che era così perché era così. Una risposta che per Einstein non era assolutamente sufficiente. La sua teoria mette in discussione proprio queste assunzioni (assiomi), studiando come le leggi fisiche, in particolare l’elettromagnetismo, si comportino al variare di sistema di riferimento, prima inerziale e poi non, arrivando quindi alla formulazione della relatività, prima la speciale (che distrugge il concetto stesso di tempo e spazio assoluti per corpi in movimento a velocità costante e identifica spazio e tempo come facenti parte della stessa “trama” fisica, i.e. lo spaziotempo) e poi la generale (l’opera magna, in cui le leggi fisiche diventano universali per qualsiasi sistema di riferimento, risolvendo alcuni dei problemi concettuali più subdoli della teoria classica di Newton e modificando radicalmente il concetto stesso di universo, spaziotempo e gravità).


Dott.  Edoardo D'Andrea
istruttore della Giuncarossa, laureato magistrale in fisica delle particelle 

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