Combattere senza combattere
«L’unico vero modo di vincere un combattimento? Non cominciarlo». È stato questo il primo insegnamento ricevuto da un mio vecchio maestro di arti marziali. Che, però, aggiungeva: «Solo se sei con le spalle al muro, solo se la tua vita, o quella di un tuo caro, è in pericolo, allora devi accettare il combattimento. In quel caso, ogni colpo è concesso e il tuo obiettivo è distruggere l’avversario con il minor sforzo possibile, con il maggior danno possibile e nel minor tempo possibile».
Si dice che sapersi difendere, cioè essere sicuri di se stessi e delle proprie capacità, è un ottimo sistema per evitare di lasciarsi trascinare in una lotta. Ed è vero. Ma non basta. Non siamo monaci zen, non viviamo nel placido silenzio di un convento tibetano, le nostre giornate non sono scandite da preghiere, pasti frugali e meditazione. Siamo, invece, vittime di stress, fretta, ansie e preoccupazioni. E della rabbia. Uno dei «demoni» buddisti con cui bisogna confrontarsi per raggiungere la quiete interiore. Quindi, non è facile evitare le provocazioni.
Ma come comincia un combattimento? Con una «proiezione». Facciamo un esempio. Siamo in auto, un’altra vettura ci taglia la strada e ci spaventiamo. Dalla paura nasce l’ira. Lo stesso succede all’altro automobilista. E partono gli insulti e le minacce. Sono solo parole. E le parole, spiega Eckhart Tolle, sono come un cartello stradale: indicano qualcosa, ma non sono «quel» qualcosa. Perché, dunque, arrabbiarsi per una parola, per di più pronunciata da un estraneo, cioè qualcuno che non può ferirci? Come mai ci offendiamo? Accade perché, anche se noi fisicamente non siamo in pericolo, il nostro ego si sente minacciato «mortalmente», il nostro orgoglio ingigantisce l’«offesa» e insorge, e noi «proiettiamo» queste sensazioni nel film della nostra immaginazione, facendole diventare quasi reali. Lo stesso fa l’altro. Le temperature dei «termostati» del nostro reciproco autocontrollo salgono, fino a raggiungere il punto di rottura. Uno dei due scende dalla vettura e va verso l’altro. Gli insulti si intensificano, si arriva al contatto fisico, le mani si alzano. E dalle parole si passa ai fatti.
Quindi? Che fare? O, meglio, come bloccare la «spirale egotica» prima che sia incontrollabile? Bisogna diventare consapevoli del meccanismo e disinnescarlo. L’unico modo è attivare immediatamente il nostro «guardiano interiore», essere sempre presenti a se stessi e capire subito (come subito reagiamo a un attacco o a una «pressione») che stiamo infilandoci in un vicolo cieco. Una strada che ci porterà a conseguenze spiacevoli, a volte persino tragiche. Se la imbocchiamo, poi non sarà facile abbandonarla. Dobbiamo evitare di farlo. E, per riuscirci, dobbiamo fermarci al primo passo.
Giornalista